Si tratta di quell’accordo che integra all’occorrenza il contratto di lavoro, ma non và confuso con l’obbligo di fedeltà e i limiti di concorrenza tra imprese. E’ previsto e disciplinato dall’art. 2125 del c.c. che ne definisce i confini. Il patto limita l’attività svolta, successivamente alla cessazione del rapporto di lavoro; è nullo se non viene redatto in forma scritta, se non ha dei determinati limiti di tempo (massimo cinque anni per i dirigenti e tre per le altre figure) e se non viene pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro.
La Cassazione ha evidenziato nell'ordinanza n. 23418/2021 che il patto non deve necessariamente limitarsi alle mansioni espletate, deve riguardare la professionalità commisurata al reddito, il compenso del patto non può essere simbolico, ma commisurato alla prestazione erogata e può essere erogato anche in corso del rapporto di lavoro.
E’ importante precisare che la facoltà di poter risolvere il patto di non concorrenza non può essere esclusiva del datore di lavoro, pena la nullità, perché in tal caso il lavoratore nel momento in cui la sottoscrive potrebbe vedere mortificata o compromessa la sua capacità di progettare il proprio futuro per quella parte di attività (ordinanze della cassazione n. 4032/2022,n. 212 dell’8 gennaio 2013 e n. 23723 del 1° settembre 2021)
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